Note da timor leste

Sono le quattro e mezza del mattino, il nostro mezzo di trasporto è quello che qui definiscono “anggunas”. Un mezzo di trasporto comune a Timor Leste, simile a un camion adattato per il trasporto di passeggeri e merci. È costituito da un ampio cassone posteriore dove i passeggeri spesso siedono su panche improvvisate o direttamente sui loro bagagli. Per loro comunque, la normalità. Siamo i primi a salire a Com, una località sulla spiaggia a est dell’isola. L’autista tiene la musica a tutto volume. Ci fermiamo davanti ad una casa, l’intera famiglia è fuori ad aspettare. “Che bello”, ho pensato. “Andranno in città per il mercato”. Il papa’ si avvicina con una torcia da testa e controlla la parte posteriore del furgone, dove stavamo seduti noi tre. Fa cenno di sì con il capo e torna verso la casa. Dalle aperture della copertura vedo un caprone legato ad un albero. “Oh no”. Sapevo quello che stava per succedere ma non avevo idea di come sarebbe successo. Il papà e qualche amico forzano il caprone verso il furgone, gli legano le zampe posteriori, quelle anteriori insieme al collo e di forza lo caricano. 

Adesso nel furgone ci siamo noi, una signora che tiene stretta la sua borsetta, l’allegra famigliola e il loro caprone che, coricato, si divincola e piange. Ho pensato di scendere e aspettare il prossimo passaggio, fare hitch-hiking. Ma situazioni come queste sono il motivo del viaggio. Ciò che ci spinge a capire, comprendere e anche a non dimenticare i nostri privilegi. A immergerci a pieno in quella che è la vita delle persone locali, vedere come vivono e come sopravvivono. Ci abbiamo impiegato più di due ore ad arrivare a Lospalos. Google maps diceva 40 minuti, ma ho capito che su quest’isola il tempo scorre in modo diverso.

Dili - Sulla capitale che non ti aspetti. 

Abbiamo passato i primi due giorni a Dili, la capitale. Che comunque non è una capitale come le altre in cui sono stata. Dili è il cuore politico e culturale del paese. Dopo secoli di colonizzazione portoghese, seguiti da un difficile periodo sotto l'occupazione indonesiana, la città riflette un mix unico di storia travagliata e spirito di rinascita. Non si vedono turisti. O grandi negozi. O persone che parlano inglese. Ma tutti ti salutano e cercano di aiutarti. Ci sono mercati ovunque, di frutta e verdura, ci sono banchi dove grigliano pesci e pannocchie. Uomini che girano per le strade con aste di legno sulle spalle, dalle quali pendono galline o pesce crudo. Nessuno ti prega di comprare, nessuno insiste.

C'è un posto, all’estremità est di Dili, con una collina e una statua di Cristo enorme, una cosa tipo Rio. Lo chiamano Cristo Rei. Da lì il tramonto è incredibile, ma poi per tornare a casa c'è da fare autostop perché di “microlet” - i minibus che operano in città - dopo le 6 non ce ne sono. A Dili stiamo in uno dei due ostelli, nella parte occidentale della città. Il bagno in comune è un lusso: ha l’acqua calda. Il primo “backpackers” della capitale, aperto 9 anni fa, ci dice orgoglioso il proprietario. E io mi chiedo come faccia a sopravvivere visto che siamo praticamente gli unici ospiti. 

Com, Lospalos, Jaco Island - Sul concetto di tempo timorose.

Il terzo giorno ci dirigiamo verso Com, su un mezzo più simile ai nostri pullmini ma con decorazioni indecenti e musica a palla, roba da mal di testa. Ci dovrebbe passare a prendere alle 11 sotto il nostro ostello. Peccato che tutti e 20 i passeggeri che quel minivan può ospitare sarebbero stati passati a prendere sotto casa. In una città del Sud Est Asiatico, questo significa passare 3 ore seduti su un bus che gira in lungo e in largo. Quando pensavo fossimo ormai al completo, l’autista riceve un’altra chiamata. E cosi torniamo indietro e carichiamo altre due persone più un letto, un materasso e un mobile da bagno. Lo so è dura da immaginare ma è andata proprio così. L’autista paga il proprietario del pullmino un tot di sedili e si tiene il resto. Per questo cercano sempre di partire con più persone possibili a bordo. Ma a bordo non ci si annoia: oltre alla musica decisamente interessante, ogni volta che rallentiamo tre o quattro ragazzi saltano sul bus in corsa - che ovviamente tiene le porte aperte - e cercano di vendere ai passeggeri della frutta o degli snack. Quando capiscono che nessuno vuole comprare un bel niente, ma tutti vogliono solo iniziare a dirigersi verso la destinazione, saltano giù dal bus in corsa, come se niente fosse. In infradito. 

E cosi, alle 2 del pomeriggio finalmente partiamo in direzione est, costeggiando la parte nord dell’isola. Il panorama è bellissimo. Dal finestrino si vede il mare. Il viaggio dura altre 6 ore, con una sosta ad un ristorante per la cena dove servono riso e pesce grigliato. Sul pullman è vietato fumare, ma tutti fumano comunque. Il poco spazio tra i sedili è occupato dai bagagli e dai sacchi di riso o verdure che la gente trasporta. Arriviamo a Com esausti. Ma la Kati guest house è proprio sulla spiaggia. Dormiamo cullati dal rumore delle onde. E mi rendo conto di quanto rumore mi aveva circondata fino a quel momento. 

Com è uno di quei luoghi dove il tempo sembra essersi fermato. Il villaggio è noto per le sue bellissime spiagge bianche e per essere un punto di partenza per esplorare la remota isola di Jaco, un paradiso incontaminato protetto dall’importanza culturale attribuita dalla popolazione locale. Motivo per cui anche noi siamo di passaggio a Com. La sua bellezza naturale è un esempio di ciò che Timor Leste può offrire: scenari mozzafiato e una pace rara.

Il piano era quello di svegliarci la mattina, fare colazione e dirigerci all’isola di Jaco. Così ci avevano detto all’ufficio turistico, perché da Com sarebbe stato facile trovare un autista, un pullman o noleggiare uno scooter. Veniamo informati presto che tutto ciò è una barzelletta e che l’unica angguna parte alle 4.30 del mattino da Com. Che da li potevamo andare a Lospalos, dove saremmo rimasti una notte, per poi dirigerci a Jaco il mattino seguente. Dove saremmo dovuti rimanere una notte perché le microlet da li per tornare a Lospalos ci sono solo la mattina, dal mercato tradizionale. E, da Valu Beach, la spiaggia di fronte a Jaco, in realtà non ci sono neanche mezzi pubblici, c’è da sperare che qualcuno ti dia un passaggio oppure, armati di pazienza, c’è da farsi 8 km a piedi (in salita) fino a Tutuala, il paese dove si fermano i mezzi pubblici. Quindi ci sarebbero serviti almeno 3 giorni e un po’ di fortuna, per coprire una distanza di neanche 100km. Ma questo nessuno ce lo dice, lo scopriamo durante il viaggio. Ma per le cose belle ci vuole pazienza.

E come ci sono arrivata a Lospalos l’ho già anticipato e per sfortuna, quella non sarà l’unica volta che viaggerò con degli animali. 

Lospalos è una delle città principali della parte orientale dell’isola ed è anche il centro culturale della popolazione Fataluku, uno dei gruppi etnici più importanti di Timor Leste. Questa regione è rinomata per le sue case tradizionali costruite su palafitte, chiamate "uma lulik", che riflettono il profondo legame spirituale che le comunità mantengono con gli antenati.

Il concetto di tempo qui è diverso. Le persone sanno aspettare, sanno farlo molto bene. Tutti corrono, ma nessuno è di fretta. Perché lo sanno che tutto richiede tempo e c'è poco che possono fare a riguardo. Per me è stata questa la sfida più dura. Viaggio da due anni senza piani, senza date, lentamente. Vivo da due anni alla giornata. Ma a Timor Leste ho testato la mia pazienza, la mia forza mentale. La mia capacità di di aspettare. Abbiamo aspettato i mezzi di trasporto per ore, senza poter comunicare e senza sapere quando effettivamente l’autista deciderà che il suo furgone è pieno abbastanza e si può partire.

Finalmente, quasi una settimana dopo il nostro arrivo a Timor Leste, raggiungiamo Valu Beach - dopo aver pagato l’autista $30 extra per percorrere quegli 8 chilometri di strada perfettamente asfaltata (quando le 3 ore precedenti percorse su una strada tortuosa e piena di buche e pietre c’era costata solamente $5).

Di fronte a noi l’isola di Jaco, incontaminata, verde, rigogliosa, circondata da un mare che è come mi immagino i Caraibi. Finalmente.

Passiamo la notte a Valu Sere, una guest house gestita dalla communita’ di Tutuala. E’ una cooperativa, le famiglie lavorano nella guest house a rotazione. Tutto il ricavato viene investito nella comunità e in progetti ambientali per il parco nazionale. Ci sono tre donne al nostro arrivo, sedute su dei gradini. Ci vedono, si guardano negli occhi e iniziano ad agitarsi, felici. Non vedono molti turisti qui, ho pensato. Ci vengono incontro, allestiscono un salottino con sedie di plastica e un tavolino da caffè. Ci invitano a sederci. A gesti gli facciamo capire che vogliamo passare la notte lì. Nel frattempo loro ci offrono the e manioca (cassava) bollita. E poi ci fanno vedere i bagni e la nostra stanza. A Valu Sere le stanze sono delle casette fatte di bamboo. La doccia è una vasca di cemento e un secchio di plastica, una situazione abbastanza comune a Timor Leste e in altri paesi del Sud Est Asiatico. La cena e la colazione sono fatte di prodotti locali: riso, uova, zucca e patate. Le tre donne ci trattano come figli.

Con nostra sorpresa la guest house è piena di gente. Famiglie provenienti da Dili che sono scappate dalla città per il weekend. Li conosciamo Jose e la sua famiglia. Ci invitano ad andare con loro su Jaco il giorno dopo e che sono disposti a darci un passaggio fino a Baucau - la nostra prossima tappa. La fortuna era dalla nostra parte. Le persone a Timor Leste lo sanno quando è difficile spostarsi. Lo sanno che non è facile fare i turisti. E cercano di aiutarti, sempre.

Cosi il mattino dopo, i pescatori ci portano su Jaco, per $10 a testa, andata e ritorno. Sulle loro barchette traballanti. E Jaco è il paradiso che mi ero immaginata. Ma la sua bellezza non so descriverla, lascio solo le foto. 

Baucau – Sulla seconda città più grande di Timor Leste, che non e’ una citta’

Quando arrivi a Baucau, ti aspetti il caos tipico delle grandi città. Magari un po' più di movimento rispetto a Dili, qualche macchina in più, un mercato frenetico, negozi che vendono di tutto. E invece, quello che ti accoglie è un’atmosfera di quiete surreale. Le strade sono larghe e quasi deserte, punteggiate da edifici coloniali portoghesi che sembrano essere stati dimenticati dal tempo. Qualche anziano seduto all’ombra di una veranda, bambini che corrono scalzi, donne che vendono pesce crudo o verdure. Qui, a Baucau, il tempo scorre in un modo tutto suo.

A Baucau trovi il contrasto tra il vecchio e il nuovo. Nella parte alta della città, quella più antica, le case color pastello parlano di un passato coloniale che, nonostante tutto, resiste. Il palazzo comunale è uno degli edifici più imponenti e sembra quasi fuori posto in una città così tranquilla. Il vecchio mercato, con le sue arcate eleganti, è ormai in disuso, ma rimane lì a ricordare i giorni in cui questa era una delle zone più importanti del paese. Nel frattempo, la parte bassa di Baucau è più moderna, con un mercato locale ancora vivace, dove le persone si muovono lentamente tra banchi di frutta tropicale, pesce fresco e tessuti fatti a mano.

Costruita ai tempi dei portoghesi, a Baucau c’è una piscina alimentata da una sorgente naturale. Si trova nascosta tra gli alberi. A quanto pare è una delle attività più interessanti da svolgere in città.

Di Baucau non ho esattamente non un bel ricordo, abbiamo aspettato un’annduna per cinque ore, e siamo stati informati - lo ripeto, cinque ore dopo - che c’era un guasto. Ho quasi pianto. E d’istinto abbiamo deciso che il nostro tempo in quella zona era finito ed era meglio tornarsene a Dili. Comunque da OLHAO Coffee, l’espresso è molto buono.

Ramelau e Hato Bilico - Su quella volta che ho pensato di morire due volte in tre giorni. 

Il Ramelau è la montagna più alta del paese - 2 984 metri. All’ufficio turistico la stessa dolcissima ragazza con cui avevamo parlato la prima volta - che anche se dolcissima e disponibile non credo abbia mai viaggiato tanto con i mezzi pubblici nel suo paese - ci dice di recarci al mercato Taibesi a Dili, perché è da lì partono le angguna per Hato Bilico. Con incredibile facilità raggiungiamo il mercato e troviamo effettivamente un furgoncino diretto là. Poco dopo il nostro arrivo - di nuovo incredibilmente - l’autista ci informa che è ora di partire. La strada per Hato Bilico, il paesino a 2 000 metri di altitudine da dove parte il sentiero per scalare il Ramelau è tortuosa ma asfaltata fino a Maubisse. Dove, tra le altre cose, ci sono tantissime piantagioni di caffe. Ma la 30ina di km che separano Maubisse e Hatu Bilico sono un disastro. La strada è stretta, piena di buche. In alcune zone è collassata. Nel frattempo, viene buio, non si vede quasi niente. Ma grazie ai fari del furgoncino distinguo benissimo il burrone alla nostra sinistra e le condizioni pessime della strada. Io non metto in dubbio che gli abitanti del sud est asiatico siano degli autisti eccezionali. Infatti il nostro autista era completamente rilassato. Mentre io per 2 ore non ho fatto altro che pensare a tutto quello che poteva andare storto e a come - se ci fossimo effettivamente ribaltati e morti in quel burrone, i miei genitori non avrebbero mai saputo che fine io abbia fatto. E forse sarebbe stato meglio cosi, perché si sarebbero incazzati e non poco a sapermi morta in quella maniera.

Non fatevi scoraggiare, comunque ne è valsa la pena. Ma il mio consiglio è: non aspettate le tre del pomeriggio, partite con un angguna la mattina, sono sicura che con la luce del sole quella strada non è poi troppo male.  

Alle 8.30 arriviamo a destinazione, e io scrivo subito alla mia famiglia un messaggio random che dice “vi voglio bene”. La guest house è vuota, siamo gli unici ospiti. Ed è fredda, molto fredda. Il sistema dell’acqua calda non era accesso quindi rifiuto l’idea di farmi una doccia. Una signora anziana ci porta la cena - riso freddo, verdure fredde, frittata fredda. Ma va bene cosi. Mi metto a letto sotto due piumoni e una coperta di pile. La sveglia per il mattino dopo suona alle 2 e 30.

Quando partiamo con la nostra guida verso le 3. Più che una guida è un accompagnatore, perché il Ramelau è considerato un luogo sacro. Il cielo è un tappeto di stelle. Ma non ho molto tempo per godermelo. il sentiero s’impenna e diventa ripido molto alla svelta. Ci impieghiamo tre ore ad arrivare in cima, sono le 6 del mattino. C’è una statua della Madonna alta 3 metri ad aspettarci. Non c’è altra anima viva, un silenzio tombale.

Una prima striscia rossa illumina il cielo blu e inizio a distinguere il paesaggio intorno a me. Le montagne, le luci delle case in lontananza, l’oceano che circonda l’isola e i colori della statua. Lontano, nel mare, si vede anche l’isola di Atauro. 

Poco dopo l’alba arrivano in cima due ragazze giovani. Studiano inglese a Dili e sono venute a pregare perché la loro laurea vada bene. Cosi si inginocchiano davanti alla statua della Vergine e dopo aver pronunciato qualche preghiera, iniziano a cantare. Cantano bene, le voci che si mescolano ai rumore della natura, del vento, al cinguettare degli uccelli. Non sono credente, ma quello è stato un momento magico. 

Tornati alla guest house - dove facciamo colazione con patate bollite e caffè, ci informano che per tornare a Dili dobbiamo aspettare il giorno seguente. Cosi ci prendiamo la giornata per visitare il paese e la scuola.

La mattina dopo al mercato, l’unico furgone disponibile è pieno, cosi una bambina di 11 anni di nome Ina ci aiuta a trovare due uomini con delle moto, che sono disposti ad accompagnarci fino a Maubisse. Da lì avremmo avuto buone possibilità di trovare un angguna diretta a Dili. Mi sembra una pazzia salire su una moto, con il mio zaino da 14 kg sulle spalle, su una strada piena di buche e pozze d’acqua che sembrano piscine. Ma non c'è altra soluzione, cosi montiamo in sella. Ci impieghiamo più di un ora, sono così tesa durante il viaggio che quando arriviamo a Maubisse a stento mi reggo in piedi. Ho usato tutti i muscoli del mio corpo per bilanciarmi e cercare di non cadere. Per la seconda volta ho pensato che forse sarei morta. E di nuovo scrivo a mia mamma: “ti voglio bene e mi manchi”.

A Maubisse fermiamo un furgoncino: è una famiglia diretta a Dili. Acconsentono di accompagnarci in città per $10 a testa. Ci sediamo nel retro, dove hanno disposto dei materassini per stare più comodi. Seduti con noi ci sono tre donne, un ragazzo, due bambini piccoli e tre povere galline. Due uomini che stanno in piedi per tutta la durata del viaggio. Mi ustiono sotto il sole e sono anche un po’ disidratata, ma arriviamo a Dili e ci lasciano in centro. Così possiamo andare a mangiare nel mio ristorante preferito, Dili-Cious, il mio curry di zucca preferito e riprendermi da quell’esperienza. 

Nelle due settimane di permanenza a Timor Leste ho incontrato solo altri 4 turisti e un paio di americani che erano lì per insegnare inglese. Un paese nel quale il turismo di massa ancora non è arrivato e questo, per me, ha reso l’esperienza magica, autentica. Mentre mi lascio alle spalle le strade polverose di Timor Leste e il ritmo lento che ormai si è fatto parte di noi, mi rendo conto di una cosa: questo viaggio è stato un tuffo in una realtà che ti costringe a ricalibrare la tua idea di tempo e di connessione. Timor non ti dà risposte facili, non ti offre il comfort a cui sei abituato, ma in cambio ti regala qualcosa di molto più profondo: una semplicità disarmante, fatta di sorrisi che spuntano tra le vie di ogni paese, di mani che stringono un pesce fresco al mercato, di sguardi silenziosi ma pieni di storie.

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